Andiamo avanti insistendo affinché il caso arrivi all'attenzione della Corte di Giustizia Europea, che è l'unico giudice che possa sindacare la violazione di una Direttiva dell'Unione Europea.
Estratto sentenza n. 4031/2019 del 26/04/2019 - RG n. 40475/2017
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE LAVORO 4^ (PRIMO GRADO) - V.le G. Cesare n. 54
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice designato dott.ssa M.Emili, alla odierna udienza ha pronunciato e pubblicato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 40475 2017 RG
FRA
(omissis) tutti elettivamente dom.ti in Roma, in Viale Giulio Cesare 51/A preso lo studio degli Avvocati Fernando Gallone e Iole Urso, che li rappresentano per procura in calce al ricorso;
E
GESTIONE COMMISSARIALE FONDO BUONUSCITA LAVORATORI POSTE ITALIANE ISTITUTO POSTELEGRAFONICI IPOST domiciliata elettivamente VIA FULCIERI PAULUCCI DE’ CALBOLI, 5 00195 ROMA nello studio dell’Avv. BUZZELLI DARIO che la rappresenta e difende in virtù di procura alle liti;
NONCHE’
ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA SOCIALE – INPS successore ex lege dell’INPDAP, rappresentato e difeso nel presente giudizio dall’Avv. Flavia Incletolli con la quale è elettivamente domiciliato presso l’Avvocatura dell’ente in Roma alla Via Cesare Beccaria n. 29, giusta procura generale alle liti per atto Notaio Paolo Castellini in data 21 luglio 2015 rep. 80974 rogito 21569;
E
Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore (CF 80188230587) ope legis rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domicilia ope legis in via dei Portoghesi 12, Roma;
E
POSTE ITALIANE SPA elett.te dom.ta in Roma, Viale Europa 190, rappresentata e difesa dagli Avv. Roberta Aiazzi e Rossana Clavelli, giusta procura generale alle liti Notar Ambrosone, rep. n. 52163 del 6.5.2017;
Svolgimento del processo e motivi della decisione
Con ricorso depositato in data 7.12.2017, i ricorrenti indicati in epigrafe hanno convenuto in giudizio la Gestione Commissariale Fondo Buonuscita Lavoratori Poste Italiane - Istituto Postelegrafonici Ipost, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), Poste Italiane s.p.a. e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “ - Accertare e dichiarare il diritto dei ricorrenti a vedersi determinata l'indennità di buonuscita dovuta, sulla base dell'ultima retribuzione percepita all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, condannando, per l'effetto, la Gestione Commissariale Fondo Buonuscita per i lavoratori delle Poste Italiane s.p.a., l'Inps, e Poste Italiane s.p.a., in solido tra loro, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., al pagamento, in favore dei ricorrenti già cessati dal servizio, degli importi dovuti a titolo di differenze rispetto a quanto già parzialmente loro liquidato, ovvero, condannare ai diversi importi dovuti, maggiori o minori, eventualmente da determinarsi in corso di causa, anche tramite CTU contabile; con ogni conseguente determinazione in ordine al corretto il criterio di calcolo da adottarsi per i ricorrenti attualmente ancora in servizio,
in via alternativa: - Accertare e dichiarare il diritto dei ricorrenti a vedersi rivalutato l'importo dell'indennità di buonuscita maturata alla data del 28/2/1998, con applicazione degli incrementi annuali spettanti, per il periodo intercorrente tra il 1/3/1998 e la data di effettiva risoluzione del rapporto di lavoro, secondo le disposizioni di cui ai commi 4° e 5° dell'art. 2120 c.c., come modificato dalla Legge n. 297/1982 e per l'effetto, condannare la Gestione Commissariale Fondo Buonuscita per i lavoratori delle Poste Italiane s.p.a., l'Inps, e Poste Italiane s.p.a., in solido tra loro, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., al pagamento, in favore dei ricorrenti già cessati dal servizio, degli importi dovuti a titolo di differenze, come quantificati negli allegati conteggi indicanti sia la rivalutazione monetaria, sia gli interessi sulle somme già parzialmente liquidate, ovvero, in caso di contestazione sul calcolo delle somme dovute, condannare ai diversi importi, maggiori o minori, meglio determinati in corso di causa, anche tramite CTU contabile; con ogni conseguente determinazione in ordine al corretto criterio di calcolo da adottarsi per i ricorrenti attualmente ancora in servizio;
in via subordinata: - Accertata la violazione della Direttiva Comunitaria 77/187/CEE e ss. mm., da parte del Legislatore italiano, condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio p.t., al pagamento, in favore dei ricorrenti già cessati, di un importo, eventualmente anche a titolo risarcitorio, pari alla diminuzione patrimoniale subita per effetto della liquidazione dell'indennità di buonuscita sulla base della retribuzione percepita alla data del 28/2/1998, anziché a quella dell'effettiva cessazione del rapporto o più in generale pari alla diminuzione patrimoniale subita per effetto mancata applicazione della rivalutazione monetaria e interessi sull'importo liquidato a titolo di indennità di buonuscita maturata al 28/2/1998, con effetti risarcitori da determinarsi anche in favore dei lavoratori non ancora cessati dal servizio;
In ogni caso, con vittoria di spese legali e compensi professionali…”
Hanno premesso di aver lavorato ininterrottamente alle dipendenze delle “Poste Italiane” s.p.a. con i rispettivi inquadramenti, di cui alla contrattazione collettiva di settore; che tutti i ricorrenti, al momento del pensionamento avevano percepito (o avrebbero percepito) dalla compente Gestione Commissariale (oggi Inps) l’indennità di buonuscita determinata sulla base del trattamento retributivo in godimento alla data del 27 febbraio 1998, anziché su quello contrattualmente dovuto al momento della cessazione del rapporto e che l’importo percepito, peraltro, prevedeva la rivalutazione dalla data tra il 1.3.1998 e la data di risoluzione del rapporto di lavoro.
Hanno lamentato che ciò nasceva dalla interpretazione letterale della norma, accolta peraltro dalla Corte Costituzionale (nonché dalla S. Corte di Cassazione), che aveva ritenuto che la indennità di buonuscita non poteva essere calcolata sulla base dell’ultima retribuzione goduta al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma sulla base della retribuzione in godimento alla data del 28.2.1998 (data di trasformazione dell’Ente Poste Italiane in società per azioni), determinandosi perciò la insensibilità ai successivi incrementi retributivi.
Inoltre, l’importo in tal modo riconosciuto non era rivalubile per il periodo interocorrente tra la data del 1.3.1998 a la data di risoluzione, con l’applicazione degli incrementi annuali spettanti in virtù delle disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell’articolo 2120 C.c. né, tanto meno, maggiorato di interessi.
Hanno quindi lamentato che il dipendente postale che fosse andato in pensione (o sarebbe andato in pensione) avrebbe percepito una somma di denaro nettamente inferiore a quella che avrebbe percepito in assenza di privatizzazione.
Hanno richiamato precedenti di merito, invero risalenti, e dato atto della infondatezza della questione di legittimità Costituzionale della norma di cui all’art. 56, comma 6, della L. 449/97, ma anche richiamato le motivazioni della sentenza del Tribunale di Torino, secondo la quale il fatto che tale norma fosse conforme a Costituzione non implicava che fosse giusta (sentenza confermata dalal C. D’Appello di Torino, ma riformata con sent. n. 8444 del 2013, della S.C.); del fatto che la Consulta avesse comunque riconosciuto un danno economico, seppure non in contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 36 e 38 Cost., in quanto inversamente proporzionale alla misura dell’incidenza sul trattamento globale della quota di buonuscita rispetto a quella che si maturava in regime privato.
Hanno quindi dubitato della conformità del cit. art. 53, comma 6, lett a) L. 449/1997, alla direttiva 77/187/CEE concernente il “mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimtni di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti” e ss.mm. atteso che l’innegabile pregiudizio economico, cagionato esclusivamente ai lavoratori postali, poteva confliggere col diritto comunitario e, in particolare, con la direttiva menzionata (poi trasfusa nella Dir. 2001/23/CE).
Come statuito dalla Corte di Giustizia, andavano infatti salvaguardati tutti i diritti economici e retributivi dei lavoratori trasferiti anche a seguito di privatizzazione di un ente pubblico (sent. CdG CE Collino c/Telecom Italia del 14.9.2000 ma anche Sent Grande Sezione del 6.9.2011 che ne aveva ribadito i principi).
Anche il Legislatore ed il Governo Italiano si erano occupati della vicenda, sempre sostenendo l’ingiustizia subita dai lavoratori postali, mentre alcun dubbio poteva avanzarsi quanto alla natura di retribuzione differita della indennità di buonuscita, seppure avente funzione previdenziale.
Hanno quindi argomentato in diritto e concluso nei sensi sopra precisati.
La GESTIONE COMMISSARIALE FONDO BUONUSCITA POSTE ITALIANE SPA, si è costituita eccependo la inammissibilità della domanda di alcuni dei ricorrenti1 (1 omisis), cessati dal servizio, e la prescrizioone dei diritti azionati (omissis)
Quanto alla eccezione di prescrizione, ha invocato l’art. 2948 C.c. e rilevato che, avuto riguardo alla cessazione dal servizio dei singoli ricorrenti2 (2 omisis), ed ai pretesi atti interruttivi, neppure, per astratta ipotesi, una pronuncia caducatoria della norma sospetta di legittimità costituzionale, avrebbe mai consentito l'azionamento dei correlativi sottesi diritti, in assenza di validi atti interruttivi del termine predetto (peraltro per tutti i ricorrenti si poneva il problema dei contenuti e dell’effettivo perimetro delle diffide inoltrate, che avevano investito il profilo degli interessi e rivalutazione, mentre la riliquidazione della indennità doveva considerarsi estranea al contenuto delle diffide)3 (3 omisis).
Ha quindi concluso per la inammissibilità della domanda (nei limiti soggettivi precisati) e per la infondatezza per intervenuta prescrizione.
L’INPS ha eccepito, all’atto della costituzione in giudizio, la propria carenza di legittimazione passiva in quanto, ai sensi dell’art. 2 comma 27 della legge 662/1996, l’art.53 della legge 27 dicembre 1997 n.449: “A decorrere dalla data di trasformazione dell'Ente poste italiane in società per azioni ai sensi dell'articolo 2, comma 27, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, al personale dipendente dalla società medesima spettano: a) il trattamento di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del codice civile e, per il periodo lavorativo antecedente, l'indennità di buonuscita maturata, calcolata secondo la normativa vigente prima della data di cui all'alinea del presente comma. Dalla stessa data è soppresso il contributo dovuto dal datore di lavoro all'Istituto postelegrafonici ai sensi dell'articolo 37 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032. A decorrere dal 1° gennaio del secondo anno successivo alla trasformazione in società per azioni dell'Ente poste italiane è soppressa la gestione separata, istituita in seno all'Istituto postelegrafonici ai sensi dell'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica 8 aprile 1953, n. 542, per l'erogazione dell'indennità di buonuscita spettante, dal 1° agosto 1994, a tutto il personale dipendente dell'Ente in base all'articolo 6, comma 7, del decreto-legge 1° dicembre 1993, n. 487, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 1994, n. 71. Alla sua liquidazione provvede il commissario nominato per la gestione stessa, che cura il trasferimento alla società "Poste italiane" del patrimonio di detta gestione e dei rapporti attivi e passivi ad essa facenti capo”.
Con l’art. 53, cit. il legislatore aveva soppresso la gestione separata per l’erogazione dell’indennità di anzianità istituita presso IPOST e disposta la confluenza del patrimonio in un fondo chiuso, la cui gestione era stata affidata alla “Gestione Commissariale fondo buonuscita per i lavoratori delle Poste Italiane”, dotata di soggettività giuridica ed autonomia gestionale, finanziaria e patrimoniale e che quindi provvedeva, unica legittimata, all’atto della definitiva cessazione dal servizio dei lavoratori ex postali, alla liquidazione dell’indennità di buonuscita maturata ante privatizzazione.
Ha comunque ribadito la infondatezza della domanda nel merito.
POSTE ITALIANE SpA, ha ecepito il proprio difetto di legittimazione passiva essendo unica legittimata la Gestione Commissariale e, successivamente, l’Inps; l’inammissibilità della domanda nella misura in cui determinati rapporti di lavoro si erano risolti consensualmente con singoli verbali di conciliazione e con liquidazione di una cospicua somma a titolo di incentivo all’esodo4 (4 omisis). Il giudice, peraltro, doveva considerare l'ampia e omnicomprensiva portata degli accordi in questione, con conseguente applicazione del principio secondo cui la transazione, quale strumento negoziale di prevenzione della lite è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile, sicché, in mancanza di specifiche limitazioni, l’efficacia dell’accordo transattivo raggiunto dalle parti si estende a tutti i diritti scaturenti dal rapporto litigioso che risultino obiettivamente determinabili (Cass., 10/04/06 nr. 8301; Cass., 14/01/05 nr. 690, Cass., 12/2/1985 n. 1183).
Ha, da ultimo, richiamato quanto al merito la sentenza della Corte Costituzionale n. 366/06.
Anche la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri p.t., si è costituita eccependo, per l’unica domanda che la vedeva coinvolta (volta ad accertare la violazione della Direttiva comunitaria) la prescrizione delle pretese“laddove non risultassero inoltrati dai ricorrenti atti interruttivi nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2012 e il 1° gennaio 2017 … … ai sensi dell’art. 4, comma 43, della L. 12 novembre 2011 n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2012), il quale ha statuito che «La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell'ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all'articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato»; il termine quinquennale doveva infatti considerarsi maturato alla data del 1° gennaio 2017 quinquennio dalla data di entrata in vigore della disposizione sopra richiamata (1° gennaio 2012, a fronte della notifica del ricorso in data 6 luglio 2018)5. 5 (Cass. civ., sezioni unite, 22 luglio 2015 n. 15352; Cass. civ., sezione lavoro, 4 luglio 2016, n. 13598).
La natura del credito azionato doveva ritenersi lato sensu risarcitoria e comunque era trascorso anche il termine decennale.
Ha eccepito la infondateza del ricorso nel merito ed argomentato in diritto.
Alla odierna udienza il processo, non necessitando di attività istruttoria, è stato dunque deciso, all’esito della concessione di termine per lo scambio di note.
Premette il Giudice che non appare necessario esaminare le eccezioni avanzate dalla società Poste Italiane e dell’Inps relative alla legittimazione passiva in quanto, in applicazione del principio processuale della "ragione più liquida" - desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. - deve ritenersi consentito esaminare previamente il motivo di merito suscettibile di assicurare la definizione del giudizio6. 6 cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 9936 del 08/05/2014, da ultimo Ord. n. 363/2019
Sotto tale profilo, come statuito dalle numerose pronunce di legittimità e di merito intervenute in materia, la pretesa dei ricorrenti non può considerarsi fondata.
Il tenore letterale dell’art. 53, comma 6 della L. n. 449/97, ma anche la interpretazione sistematica della stessa, in relazione alle previsioni di cui agli artt. 2, commi 5,7, e 8 della Legge n. 335/95, comma 56 Legge 449/97, e art. 3 commi 2 e 3 del D.P.R. n. 1032/73, e artt. 2120 e 2129 C.c., infatti, non consente di aderire alla ricostruzione attorea.
Va ricordato che l’art. 53, comma 6, cit., ha previsto che "a decorrere dalla data di trasformazione dell'Ente Poste Italiane in società per azioni... al personale dipendente della società medesima spettano: a) il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c., e, per il periodo lavorativo antecedente, l'indennità di buonuscita maturata, secondo la normativa vigente prima della data di cui all'alinea del presente comma" (ossia 28 febbraio 1998).
L'aggettivo "maturato" da un punto di vista lessicale, infatti, sta ad indicare ciò che ha finito di crescere, che è giunto a perfezione (impedendo quindi di considerare come base di computo una retribuzione relativa ad un periodo successivo) mentre l'aver riferito alla buonuscita tale qualità non può che significare che la stessa è ben definita, non suscettibile di ulteriore incremento nel suo ammontare, pur se esigibile al termine del rapporto7. 7 Cass. n. 8444/2013, con richiami anche a Cass n. 28281/2008
Inoltre, quest’ultima, assume rilevanza già ai fini del trattamento di fine rapporto (sia pure come componente dell’accantonamento annuo) dovuto in relazione al periodo del rapporto di lavoro successivo al 28.2.1998 (e fino alla sua cessazione) e, quindi, aderire alla tesi dei ricorrenti significherebbe riconoscere alla medesima ultima retribuzione una duplice (e in quanto tale inammissibile) rilevanza, sia ai fini dell’indennità di buonuscita, sia ai fini del t.f.r., contrariamente al chiaro tenore delle disposizioni sopra richiamate.
Del resto, se il legislatore ha inteso distinguere tra il prima ed il dopo 28 febbraio 1998, e disposto che da tale data in poi va applicata la disciplina di cui all'art. 2120 C.c., non è logicamente ipotizzabile, nel complessivo sistema introdotto con la L. 29 maggio 1982, n. 297, che quella indennità possa subire incrementi per effetto della dinamica salariale: con l'art. 5, di detta legge, infatti, è stato stabilito espressamente che l'indennità di anzianità maturata al 30 maggio 1982 dovesse essere calcolata nel suo ammontare a tale data e, quindi, accantonata, per essere poi concretamente corrisposta alla risoluzione del rapporto, insieme agli accantonamenti contabilizzati, dopo quella data, anno per anno.
Tale disciplina, considerata la diversità di trattamento imposta dalla natura pubblica dell'ente prima della privatizzazione, non ha previsto un meccanismo di rivalutazione periodica della buonuscita (a differenza di quanto è regolato dall'art. 2120 C.c.), è stata ritenuta conforme a Costituzione dal Giudice delle leggi che ha ritenuto infondata la questione di legittimità con la sent del 25 ottobre 2006 n. 366 (di tale circostanza da atto anche la parte ricorrente).
Con tale decisione (il cui contenuto è stato confermato dalla successiva ordinanza 27 dicembre 2007 n. 444), sulla premessa della fissazione a norma dell’art. 53 della L. 447/97, della indennità di buonuscita nella misura calcolata in base alla precedente normativa del pubblico impiego alla data dal 28 febbraio 1998, senza la previsione di un meccanismo di rivalutazione periodica (come nel rapporto di lavoro privato) è stato escluso, in primo luogo, un contrasto con il parametro dell’art. 3 Cost., in quanto il decorso del tempo e le differenze di momenti in cui accadono i fatti giuridici possono giustificare diversità di disciplina, con l'ulteriore considerazione che il periodo intercorrente tra la determinazione della buonuscita e il pagamento del t.f.r. quanto più sarà lungo tanto più sarà minore l'incidenza della prima sull'entità globale del trattamento erogato alla cessazione del rapporto di lavoro.
Il Giudice delle leggi, ha, poi, “negato una violazione dell'art. 36 Cost., perchè, pur riconoscendo la natura di retribuzione differita di tutti i trattamenti di fine rapporto quale che sia l'ente erogatore e la denominazione di ciascuno di essi e che pure a tali crediti si estende la particolare tutela di cui all'art. 36 Cost., con la salvaguardia del potere di acquisto secondo idonee - anche se non identiche - discipline, non per questo poteva essere affermata l'illegittimità della disposizione censurata. La Corte ha, infatti, ritenuto che il rispetto dell'art. 36 Cost., - in ipotesi di un trattamento globale costituito da più componenti (indennità di buonuscita determinata secondo la disposizione censurata e trattamento di fine rapporto disciplinato dall'art. 2120 c.c.) - deve essere valutato non con riguardo a ciascuna di queste, bensì alla totalità dell'emolumento ed, alla stregua di tale principio, ha ribadito che la buonuscita è uno degli elementi del trattamento globale spettante ai lavoratori postali con pregresso periodo di svolgimento del rapporto in regime di pubblico impiego e che l'entità della sua svalutazione - in misura, come si è detto, verosimilmente parametrata alla durata del periodo intercorrente tra la data della sua determinazione (28 febbraio 1998) e quella di cessazione del rapporto per ciascun lavoratore - è inversamente proporzionale alla misura dell'incidenza sul trattamento globale della quota di buonuscita rispetto a quella che si matura in regime di rapporto privato. Per la Corte, poi, "ciò che più conta è che la disposizione censurata deve essere valutata nell'ambito di tutta la normativa che ha regolato la trasformazione dell'azienda postale, dapprima nell'Ente Poste e poi in società per azioni, e di quella correlativa del rapporto di lavoro del personale e che sotto tale profilo - e con specifico riguardo all'oggetto della questione - … … il danno per i lavoratori, derivante dal differimento dell'erogazione dell'indennità di buonuscita rispetto al momento della sua determinazione, trova compensazione nella previsione dell'unicità del rapporto e nel rispetto delle anzianità maturate, con i conseguenti riflessi sui livelli delle retribuzioni e, quindi, sulla base di calcolo della quota del trattamento da determinare ai sensi dell'art. 2120 c.c." 8. 8 cfr. in tali termini Cass. 8444/2013 con richiamo a Cass. n. 28281/2008 cit.
Anche quanto alla assenza di meccanismi di rivalutazione (a differenza di quanto previsto dall’art. 2120 C.c., dunque, la C. Costituzionale9 9 C. Cost. sent. n. 366/2006 (il cui contenuto è stato confermato dalla successiva ordinanza n. 444 del 27.12.2007) ha escluso ogni profilo di illegittimità (rispetto di parametri di cui agli artt. 3 e 36 Cost) e fatto riferimento ad una valutazione della congruità dell’intero trattamento di fine rapporto e non solo della componente costituita dall’indennità di buonuscita, nella considerazione del fatto che la perdita del potere di acquisto di quest’ultima, erogata a distanza di tempo, viene compensata dal fatto che il dipendente pubblico delle Poste privatizzato mantiene l’anzianità maturata, con benefico effetto sui livelli retributivi e quindi anche sul successivo TFR, che a questi ultimi fa riferimento10. 10 v. CdA Roma sent. n. 334/2011
In realtà, va sgombrato il campo dall’erroneo presupposto logico-giuridico, secondo cui alla data del 28 febbraio 1998 si debba ritener maturato, in favore dei dipendenti precedentemente assunti, il diritto alla liquidazione dell’indennità di buonuscita per l’attività lavorativa resa come pubblici impiegati, con consequenziale illegittimità dell’operato dell’IPOST, che, dopo aver indebitamente congelato il relativo importo monetario, non avrebbe applicato alcun meccanismo di rivalutazione per adeguarne e salvaguardarne, a distanza di tempo, il valore e, quindi, il reale potere di acquisto.
Alla data del 28 febbraio 1998, infatti, non risulta maturato alcun diritto alla indennità di buonuscita in capo al lavoratore, giacché, seppur sotto un diverso regime giuridico, il suo rapporto lavorativo è proseguito con il medesimo datore di lavoro, a nulla rilevando l’avvenuta trasformazione dell’ente pubblico “Poste Italiane” in società per azioni.
Tale circostanza non determina l’estinzione dell’originario soggetto di diritto e la successione nei relativi rapporti di una diversa persona giuridica, ma solo la modificazione della forma, dell’organizzazione strutturale e del regime operativo di un ente che sopravvive alla vicenda modificativa senza alcuna soluzione di continuità e senza perdere la propria identità, sicché, nella fattispecie de qua, a seguito della trasformazione dell’ente pubblico economico “Poste Italiane” in società per azioni, non sorgendo un nuovo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, il rapporto di lavoro non ha affatto avuto cessazione, continuando, seppur sotto diversa regolamentazione, con lo stesso datore di lavoro.
Si comprende quindi come, lo stesso legislatore, in relazione alla specificità della vicenda successoria in esame, detti una normativa che ben può definirsi "eccezionale", ex art. 14 delle Preleggi, giacché, a fronte di un rapporto di lavoro pur sempre unico - proseguito senza soluzione di continuità tra l'azienda pubblica e la società privata -, prevede la corresponsione di due diversi trattamenti di fine rapporto (l'indennità di buonuscita ed il t.f.r.), ciascuno determinato secondo il sistema di calcolo suo proprio in relazione alla diversa durata dei segmenti temporali in cui il destinatario è stato rispettivamente pubblico dipendente e dipendente della nuova società privata ("pro rata temporis").
Ma allora, può affermarsi anche che nessun diritto al conseguimento dell’indennità di buonuscita poteva essere riconosciuto, alla data del 28 febbraio 1998, non essendosi verificata alcuna estinzione del rapporto di servizio, fondamentale presupposto giustificativo della liquidazione di tale trattamento. Può affermarsi altresì, quale effetto diretto ed immediato, che nessuna forma di congelamento o cristallizzazione di somme di denaro è stata posta indebitamente in essere, nonché che non poteva e non può essere pretesa qualsiasi forma di rivalutazione, non essendosi in presenza di un credito esigibile ed illegittimamente non soddisfatto, atteso che, all’epoca della predetta trasformazione, sussisteva un rapporto giuridico in itinere, che non poteva costituire titolo per il conseguimento di un diritto nascente solo a seguito della effettiva cessazione della attività lavorativa.
Ed infatti, se il diritto all’indennità di buonuscita sorge giuridicamente alla data di effettiva cessazione del rapporto di servizio, nessun danno da ritardato pagamento di obbligazione pecuniaria è configurabile, con la consequenziale infondatezza di una pretesa al ristoro o alla reintegrazione mediante la corresponsione degli interessi legali e di rivalutazione monetaria.
Né può essere invocato il canone dell’analogia con riferimento ai criteri dei commi 4 e 5 dell’art. 2120 C.c., in quanto la legge n. 292/82 regola il passaggio da un regime all’altro del trattamento di fine rapporto nell’ambito dell’impiego privato mentre, nella odierna fattispecie, si tratta di dipendenti pubblici il cui rapporto di lavoro è stato successivamente privatizzato, con evidente diversità delle situazioni giuridiche presupposte.
Sotto tale profilo, e pur costituendo la mancata estinzione del rapporto di servizio al 28 febbraio 1998 circostanza del tutto assorbente e di per sé idonea a dimostrare l’infondatezza di qualunque pretesa diretta ad ottenere una rivalutazione, va altresì precisato che nel caso all’esame non sussistono i presupposti per l’operatività del criterio analogico in quanto l’articolo 2120 C.c. è preordinato a regolamentare un istituto, il trattamento di fine rapporto, avente una identità strutturale e funzionale ben diversa da quella dell’indennità di buonuscita, che, a sua volta, trova specifica regolamentazione in un contesto normativo diretto a disciplinare le prestazioni previdenziali in favore dei pubblici dipendenti e, quindi, di una determinata categoria di prestatori di lavoro.
Mentre il trattamento di fine rapporto, avente sostanzialmente funzione di retribuzione differita, viene determinato accantonando per ciascun anno di servizio reso alle dipendenze di un privato datore di lavoro quote di retribuzione soggette a specifiche forme di rivalutazione, l’indennità di buonuscita, in cui prevale il profilo previdenziale e che costituisce un istituto di maggior favore per i pubblici dipendenti, è calcolata sulla base dell’ultima retribuzione percepita prima della cessazione del rapporto di impiego, tenuto conto degli anni di lavoro prestati in favore dello Stato o di altro ente pubblico.
Tra l’articolo 2120 C.c. e l’articolo 3 DPR 1032/1973 intercorre, pertanto, un rapporto di specialità reciproca tra norme, che preclude qualsiasi tentativo di interpretazione analogica, sicché appare inibita l’applicazione dei criteri di rivalutazione previsti per il trattamento di fine rapporto ad un istituto che, essendo ontologicamente differente per modalità di calcolo e di funzione, non prevede, al contrario, alcun sistema di adeguamento retributivo.
Il ricorso all’analogia inoltre presuppone, oltre ad un vuoto normativo, la riconducibilità della fattispecie nell’ambito applicativo di altra disposizione che disciplina casi simili o materie affini, non potendo, viceversa, essere fondatamente invocata nelle ipotesi in cui la norma assunta a parametro di riferimento sia espressione di ius singulare e, come tale, insuscettibile di essere estesa ad ipotesi in essa non espressamente contemplate.
La componente del complessivo trattamento di fine rapporto dovuto ai dipendenti di Poste Italiane S.p.a. per il servizio prestato a tutto il 28 febbraio 1998 è quindi indubbiamente costituita dall'ammontare dell'indennità di buonuscita, calcolata nel suo ammontare sulla retribuzione corrisposta a tale data e secondo i criteri fissati dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032.
Sulla scorta dei principi enunciati da Corte cost. n. 366/06 (richiamata dalla successiva ordinanza n. 444/07), peraltro, anche in epoca più recente la S. Corte ha ribadito che la data alla quale occorre fare riferimento per il calcolo della buonuscita è quella del 28.2.98, momento a partire dal quale il dipendente postale matura non più detta indennità, ma il trattamento di fine rapporto11. 11 Cass. n. 11902/2017 (in atti), ma v. anche n. 25555/2015
Non solo, in tale contesto, la S. Corte ha escluso anche la pertinenza del richiamo alle direttive n. 77/187/CEE e n. 2001/23/CE e, conseguentemente, che vi sia spazio alcuno per il rinvio pregiudiziale alla CGUE proprio in quanto, come nella odierna fattispecie, nella vicenda prospettata non era stata posta in discussione la continuità del rapporto (“e la controversia concerne(va) esclusivamente la modificazione di istituti propri di tali rapporti”)12. 12 Cass. n. 11902/2017 cit., conf. Ord. n. 24917/2009
In ogni caso, non è dato riscontrare nella disposizione dell’articolo 53, comma 6, legge 449/1997 la presunta violazione dei principi comunitari sanciti nella direttiva 77/187/CEE, atto diretto programmaticamente a promuovere il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di conservazione dei diritti dei lavoratori che transitino alle dipendenze di altro datore di lavoro.
Nella fattispecie in esame, i diritti dei lavoratori postali al riconoscimento dei benefici connessi all’anzianità di servizio, infatti, sono ampiamente tutelati e garantiti dal doppio trattamento di quiescenza loro assicurato dal legislatore, che ha specificamente previsto, in ragione della diversa natura giuridica dei rapporti di lavoro di cui sono stati parti i dipendenti delle Poste Italiane, una regolamentazione volta a tutelare gli stessi da effetti pregiudizievoli potenzialmente derivanti dal mutamento dell’assetto organizzativo-strutturale del datore di lavoro.
Né la sentenza C-343/98 richiamata dalla parte ricorrente offre supporto alla prospettazione dei lavoratori.
Con tale sentenza la Corte di Giustizia, in effetti, si è pronunciata sulla questione, sottopostale dal Pretore di Pinerolo, dell’applicabilità della direttiva (e quindi dell’art. 2112 C.c. che, nel testo introdotto dall’art. 47 della Legge 428/90, dà attuazione alla stessa nell’ordinamento interno) alla fattispecie disciplinata dalla legge n. 58/92 (che ha disposto la privatizzazione dei servizi di telecomunicazioni ad uso pubblico gestiti dall’azienda di Stato per i servizi telefonici, di cui è stata prevista la soppressione, nonché dell’Amministrazione delle Poste e delle comunicazioni, il cui campo di attività è stato corrispondentemente ridotto) statuendo, a riguardo, che l’art. 1 della direttiva “… deve essere interpretato nel senso che quest’ultima può applicarsi ad una situazione in cui un Ente che gestisce servizi di telecomunicazioni ad uso pubblico ed è gestito da un Ente pubblico integrato nell’Amministrazione dello Stato costituisce oggetto, a seguito di decisioni delle Pubbliche Amministrazioni, di un trasferimento a titolo oneroso, sotto forma di una concessione amministrativa, ad una società di diritto privato costituita da un altro ente pubblico che ne detiene tutte le azioni. Occorre tuttavia che le persone coinvolte in siffatto trasferimento siano inizialmente tutelate in quanto lavoratori in base al diritto nazionale nell’ambito del diritto del lavoro…”.
Osserva il Giudice che con tale decisione interpretativa la CdG ha, per un verso, affermato l’innovativo principio secondo cui, nella fattispecie individuata dalla Direttiva 1977/187/CEE, rientra anche il trasferimento di attività e di servizi attuato da un ente che fa parte integrante della Pubblica Amministrazione, quale che sia il mezzo tecnico giuridico utilizzato, e quindi anche se esso risulti da decisioni unilaterali delle P.A. e non da un concorso di volontà (così superando l’orientamento della S.C. che escludeva l’applicabilità del 2112 C.c. al trasferimento attuato in forza di provvedimento autoritativo e non di atto negoziale).
Per altro verso, tuttavia, la CdG ha anche chiarito che la direttiva intende tutelare la continuità del rapporto di lavoro nel trapasso dall’una all’altra gestione, soltanto con riferimento a quei soggetti che siano già (“inizialmente”) titolari di un rapporto della stessa natura di quello che viene a costituirsi con l’impresa acquirente.
Appare quindi inconferente il richiamo al caso di soggetti che, al momento del trasferimento, non siano tutelati in quanto lavoratori in base alle norme nazionali in materia di diritto del lavoro, per essere soggetti ad uno statuto di diritto pubblico, anche in considerazione della interpretazione fornita dalla stessa Corte di Giustizia.
Neppure relativamente alla domanda subordinata, quindi, può aderirsi alla prospettazione attorea.
Alla stregua dei motivi esposti, pertanto, non resta alternativa al rigetto integrale del ricorso.
Le spese processuali seguono, come di norma, il criterio della soccombenza e sono liquidate con il dispositivo in calce.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 2.500,00, oltre oneri di legge per ogni parte convenuta.
Così deciso in Roma in data 26.4.2019 Il Giudice