Pubblichiamo il testo della sentenza, emessa nella giornata di ieri, dalla quale si evince chiaramente la nostra soccombenza.
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE
D’APPELLO DI ROMA
II
SEZIONE LAVORO
composta
dai seguenti magistrati
dott.
Alberto CELESTE - Presidente relatore
dott.ssa
Maria Pia DI STEFANO - Consigliere
dott.
Roberto BONANNI - Consigliere
a seguito di trattazione
scritta ex art. 127-ter c.p.c.
in sostituzione dell’udienza collegiale del
12/9/2023 riunita in camera di
consiglio, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
CON MOTIVAZIONE CONTESTUALE
nella causa civile in grado d’appello iscritta al R.G. n. 3431/2019
vertente
TRA
******** ******* + ALTRI
(avv.ti Gallone e Urso)
PARTI APPELLANTI
E
POSTE ITALIANE S.P.A.
(avv.ti Febbo e Stazzi)
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO
DEI MINISTRI
(Avvocatura Generale dello
Stato)
GESTIONE
COMMISSARIALE FONDO BUONUSCITA LAVORATORI POSTE ITALIANE - ISTITUTO
POSTELEGRAFONICI IPOST
(avv.to Buzzelli)
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE - INPS
PARTI APPELLATE
OGGETTO: appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 4031 del 26/4/2019
CONCLUSIONI: come da scritti
difensivi in atti.
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con la sentenza impugnata
(optando per la ragione “più liquida” della decisione), si rigettavano le
domande - proposte da alcuni lavoratori, tutti dipendenti della Poste Italiane
Spa, nei confronti della Gestione
Commissariale
Fondo Buonuscita Lavoratori Poste Italiane-Istituto Postelegrafonici Ipost,
dell’Inps, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Poste Italiane
Spa - volte, in via principale, a rideterminare l’indennità di buonuscita
dovuta, sulla base dell’ultima retribuzione percepita all’atto della cessazione
del rapporto di lavoro; in via alternativa, a rivalutare l’importo di tale
indennità maturata al 28/2/1998, con applicazione degli incrementi spettanti
secondo le disposizioni di cui all’art. 2120, commi 4 e 5, c.c. (come modificato
dalla legge n. 297/1982); e, in via subordinata, al pagamento di un importo,
anche a titolo risarcitorio, pari alla diminuzione subita per effetto della
liquidazione dell’indennità di buonuscita sulla base della retribuzione
percepita alla data del 28/2/1998, anziché a quella dell’effettiva cessazione
del rapporto.
I lavoratori interponevano
gravame, cui resistevano soltanto la Poste Italiane Spa, la Presidenza del
Consiglio dei Ministri e la Gestione Commissariale Fondo Buonuscita Lavoratori
Poste Italiane.
Disposta la trattazione scritta
ai sensi dell’art. 127-ter c.p.c., la
causa è stata decisa come segue, con dispositivo e motivazione contestuale.
Preliminarmente, si dà atto, da
un lato, che, nel presente appello, viene evidenziato che alcuni degli
originari ricorrenti hanno rinunciato alle loro domande nei confronti della
Poste Italiane Spa, per accordi intervenuti tra le parti, e, dall’altro, che,
all’udienza del 28/9/2021, il legale degli odierni appellanti ha dichiarato di
non aver notificato l’appello né alla Gestione Commissariale né all’Inps,
rinunciando alle domande proposte nei confronti di queste ultime parti
processuali.
Residuano, pertanto, le domande
presentate dagli originari ricorrenti, esclusi quelli coinvolti nei suddetti
accordi conciliativi, ed odierni appellanti - in parte cessati dal servizio al
momento del deposito dell’atto introduttivo del presente giudizio (e, quindi,
già percettori dell’indennità di buonuscita) e, in parte, ancora in servizio -
nei confronti soltanto del datore di lavoro (ex Ente pubblico Poste Italiane, trasformatosi in Società per
azioni) nonché della Presidenza del Consiglio dei Ministri (sotto il profilo
della violazione della direttiva comunitaria da parte del legislatore
italiano).
Il presente appello si articola,
in buona sostanza, in un solo motivo, atteso che i lavoratori si lamentano
esclusivamente della non corrispondenza, nella gravata sentenza, tra il chiesto
ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c.,
rimproverando al Tribunale capitolino di essersi dilungato - a loro avviso,
ultroneamente - sulla natura o sul meccanismo di calcolo e di liquidazione
delle differenti indennità terminative del rapporto di lavoro, nonché sulla
conformità dell'art. 53, comma 6, della legge n. 449/1997 agli artt. 3, 36 e 38
Cost.
Secondo gli appellanti, il punto nodale della controversia in esame sarebbe soltanto quello di verificare se, a seguito della privatizzazione dell'Ente pubblico economico Poste Italiane, i suddetti lavoratori avessero subìto un pregiudizio retributivo oggettivo, e la risposta a tale domanda dipenderebbe soltanto dalla soluzione della preliminare questione se, nel caso di specie, si fosse realizzato un “trasferimento d'azienda”.
In altri termini - come sottolineato a pagina 24 del presente libello impugnatorio - “se la risposta a quest'ultimo quesito è no, allora nulla quaestio ed i ricorrenti hanno torto, non avendo nulla a pretendere (mentre) se, invece, la risposta è sì, e dunque si è effettivamente trattato di un ‘trasferimento d'azienda’, allora è chiaro che ci sia stata una violazione della direttiva 77/187/CEE (oggi direttiva 2001/23/CE), la quale impone, in tali casi, che i lavoratori ‘trasferiti’ non subiscano alcun tipo di pregiudizio, che non avrebbero subìto in assenza del trasferimento stesso” (dovendo tale pregiudizio essere, dunque, riparato o/e risarcito).
A ben vedere, il primo giudice ha offerto un’ampia (e condivisibile) risposta sul punto.
Riguardo al principio di cui è
portatrice la direttiva 77/187/CEE, in materia di conservazione dei diritti dei
lavoratori che transitino alle dipendenze di altro datore di lavoro, si osserva
correttamente che, nella vicenda della privatizzazione dei dipendenti postali,
i diritti di questi ultimi sono ampiamente tutelati e garantiti dal doppio
trattamento di quiescenza loro assicurato dal legislatore, il quale ha
specificamente previsto, in ragione della diversa natura giuridica dei rapporti
di lavoro di cui sono stati parti i dipendenti delle Poste Italiane, una
regolamentazione volta a tutelare gli stessi da effetti pregiudizievoli
potenzialmente derivanti dal mutamento dell’assetto organizzativo-strutturale
del datore di lavoro.
Il Tribunale aggiunge che neppure
la sentenza C-343/98 offre un utile supporto alla prospettazione dei
lavoratori, perché, in tal caso, la Corte di Giustizia, con decisione
interpretativa, per un verso, ha affermato l’innovativo principio secondo cui,
nella fattispecie individuata dalla direttiva 77/187/CEE, rientra anche il
trasferimento di attività e di servizi attuato da un Ente che fa parte
integrante della Pubblica Amministrazione, quale che sia il mezzo tecnico
giuridico utilizzato e, quindi, anche se esso risulti da decisioni unilaterali
delle P.A. e non da un concorso di volontà, tuttavia, per altro verso, ha anche
chiarito che la suddetta direttiva intende tutelare la continuità del rapporto
di lavoro nel trapasso dall’una all’altra gestione, soltanto con riferimento a
quei soggetti che siano già (“inizialmente”) titolari di un rapporto della
stessa natura di quello che viene a costituirsi con l’impresa acquirente,
sicché appare inconferente il richiamo all’ipotesi di soggetti i quali, al
momento del trasferimento, non siano tutelati in quanto lavoratori in base alle
norme nazionali in materia di diritto del lavoro, per essere soggetti ad uno
statuto di diritto pubblico, anche in considerazione dell’interpretazione
fornita dagli stessi giudici di Lussemburgo.
Peraltro, la questione
dell’asserita applicabilità della direttiva 77/187/CEE alla fattispecie della
privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti postali era stata già
affrontata dalla Cassazione (v. sent. nn. 24917/2009 e 11902/2017), la quale
aveva chiarito che non fossero pertinenti i richiami operati alle direttive
77/187/CEE e 2001/23/CE, entrambe riferite al tema del mantenimento dei diritti
dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa: “nella vicenda in esame, la continuità dei rapporti di lavoro è fuori
discussione e la controversia concerne esclusivamente la modificazione di
istituti propri di tali rapporti … ciò esclude, dunque, che vi sia spazio
alcuno per il rinvio pregiudiziale alla CGUE sollecitato dai ricorrenti”.
Per completezza, si rileva che
appare inconferente l’accostamento - proposto dagli odierni appellanti - della
vicenda de qua con altre ipotesi di
privatizzazione, atteso che, nel caso di specie, l’Ente Poste non è stato
oggetto di un trasferimento, ma di una trasformazione in Società per azioni, a
seguito della quale non vi è stato alcun avvicendamento nella proprietà
aziendale, per cui il rapporto di lavoro è rimasto unico ed i lavoratori hanno
potuto godere interamente dell’anzianità conseguita, anche ai fini
previdenziali.
Segnatamente, nel caso della
privatizzazione del settore delle telecomunicazioni di cui alla sentenza della
Corte di Giustizia del 14/9/2000 (Collino e Chiappero / Telecom Spa) - citata
dai lavoratori - si era in presenza di un’Amministrazione dello Stato che si
spogliava di un’azienda per conferirla ad una Società costituita ad hoc, innovando radicalmente il
rapporto di lavoro; si precisava, in proposito, che l'art. 1, n. 1), della
direttiva poteva applicarsi ad una situazione in cui un Ente che gestisce
servizi di telecomunicazioni ad uso pubblico ed è gestito da un Ente pubblico
integrato nell'Amministrazione dello Stato costituisce oggetto, a seguito di
decisioni delle Pubbliche Amministrazioni, di un trasferimento a titolo oneroso,
sotto forma di una concessione amministrativa, ad una Società di diritto
privato costituita da un altro Ente pubblico che ne detiene tutte le azioni.
Nel caso di Poste Italiane,
invece, non vi era stato alcun trasferimento oneroso, posto che la gestione
statale era cessata già dal 1992 e l’Ente pubblico economico Poste, già
titolare di concessione, si era trasformato, nel 1998, in Società per azioni:
si era verificato, pertanto, un mutamento meramente giuridico del rapporto, che
aveva salvaguardato l’anzianità dei lavoratori ed aveva regolato il passaggio
tra due regimi di quiescenza molto diversi (quello della buonuscita erogata
dall’ex Ipost e quello del
trattamento di fine rapporto).
Quanto precede esclude anche il
fondamento giuridico in ordine alle dedotte violazioni della normativa europea
da parte del legislatore italiano, proprio alla luce della diversità ontologica
delle fattispecie affrontate dalla CEDU, sulla base delle summenzionate
direttive, rispetto a quella dedotta nel presente giudizio.
Per quanto fin qui esposto -
optando anche in questa sede per il principio processuale della ragione più
liquida e, quindi, non esaminando le questioni preliminari e pregiudiziali
sottese (difetto di legittimazione passiva, intervenuta prescrizione quinquennale,
inammissibilità per avvenuta transazione) - l’appello non merita accoglimento.
La peculiarità della fattispecie
sostanziale e l’opinabilità delle questioni giuridiche trattate inducono a
ritenere la sussistenza di giusti motivi per compensare le spese del grado tra
tutte le parti in causa.
Stante il tipo di pronuncia
adottata (rigetto), sussistono le condizioni oggettive, richieste dall’art. 13,
comma 1-quater, del d.P.R. n.
115/2002, per il versamento dell'ulteriore importo del contributo unificato,
pari a quello previsto per il ricorso.
P.Q.M.
a - rigetta l’appello;
b - compensa le spese del grado;
c - dà
atto che sussistono per le parti appellanti le condizioni oggettive,
richieste dall’art. 13, comma 1- quater,
del d.P.R. n. 115/2002, per il versamento dell'ulteriore importo del contributo
unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Roma, 12/9/2023
IL PRESIDENTE ESTENSORE
(Alberto Celeste)